Gianluca D’Incà Levis,Borca di Cadore,2016

fabiano de martin topranin

i custodi dello spazio

 

solo non è sperso: è in centro a sé.
stante non è fermo.
idea che s’infonde.

cosa fa, quest’idea difficile, mentre si scioglie e poi s’informa, i piccoli rivi argentei, liquido rapprende che si fa plastica, stampo d’idea?
sveliamolo all’inizio: non ruggisce -come sembra- e sorride, sospesa (l’amor pudico).

ragazzi rimangono, soli?
pieni di forze in conflitto trattenuto, che sono: ansie, tremori, stupori, rabbie, dolcezze. esplorano lo spazio, gli spazi, dei boschi, nel cosmo, tra i soli, le eclissi.
non cessano, di stare, guardare, portare.
non sono muti.
Vedette: portano un messaggio. lo spazio che occupano, non l’occupa il caso.
non scherzano, pesano.
non sfogano: pensano.
pensano d’essere.

non sono tristi, i ragazzi di fabiano de martin topranin.
guardali a fondo, come loro fanno con noi.
e come, attraverso di loro, l’autore stesso fa.
(ed è più facile per noi scavar loro che per loro dirsi a sé stessi, al mondo.
a vedere ci aiuta la loro chiara linfa, secreto d’idea concentrata, potente: più semplice l’analisi, d’autoanalisi. più semplice avvertire, che sgorgare l’idea nella forma).
ma poi, eccoci insieme davanti alla manifestazione, nei legni. le sentinelle, guide, messaggeri).
dove ci conducono?
nel luogo in cui l’idea prende corpo nella forma viva, senza sperperare la sensazione, il sentimento: catturando le linfe.

e dunque, si diceva: come l’autore stesso fa.
portando il suo sguardo a livello del mondo, sui mondi, orizzonte.
e ci son mondi nei mondi.
mondi scomposti, sciolti, percolanti, ma duri: dentro a bolle e pellicole sottili.
mondi infetti, popolati dall’uomo.
al centro dei quali siede, mangia (li mangia), l’uomo disgustoso, il peggiore tra i vivi creati, peggiore d’ogni altro.
e mondi elastici e chiari, più radi: la polpa verde celata dentro ai gusci grigi.
popolati dall’uomo: uno degli animali di cui si fa ricco il cosmo: capace di muovere, sapere, volere: del riso, del pianto.
(l’uomo è i due uomini, e tutte le cose).

e c’è una strada. un’unica strada, un’unica salvezza, in questa giungla contorta e sconnessa, in questo mondo nostro dal cielo basso, cielo rovesciato, strabuzzato, reinchiodato in fragore al suo vuoto ottuso, da sotto. cielo precipitato: sovente a noi solo si mostra nel riverbero di una pozza fetida e scura là in terra.

la strada è questa: guardare più a fondo possibile, e diritto, senza moto di palpebra.
per poi lavorar bene, senza covare il rancore – e qui ci vuol forza, matura: a controllare lo slancio (lo slancio, nel lavoro buono, sempre coincide con un istinto di ribellione morale: come tale, esso è in sé un vendicatore implacabile, mica una tecnica d’arte: va controllato, imbrigliato. in tal modo, non diventa distruttivo, ed apre).

senza covare il rancore dunque.
rancore che è molto -quel primo uomo, folle, scempiatore- ma che non basta a sé, per esacerbare del tutto, consumar del tutto, lo sguardo meravigliato di chi si ostina a cercare il cielo in alto: è questo sguardo ad essere forte davvero, nell’uomo, in alcuni uomini: è questo sguardo.
la strada è quella: credere e fare.
nonostante la morte, nonostante il belare.

in realtà, si tratta dell’unica strada che l’uomo abbia conosciuto mai, per essere a fondo, per pensare e poi fare.
il lavoro, unica grande via, unica speranza di redenzione.

come vivono, quale spazio abitano, per quale motivo paion sospese, queste creature vestite del loro moto interiore, solidi fantasmi, scolpite idee dei moti trapelanti, filtrazioni cristallizzate, di pugno e carezza.

quale corda sostengono, cosa ascoltono.
cosa incutono, paventano, suggeriscono, superano, nell’osar d’essere, nel pretenderlo, nel nasconderlo, nel celarlo: pudicizia, e furore.
e mai un grano di rassegnazione.
quali impressioni: di suono, di sogno, natura, di pece, germoglio, reazione, nei magmi, sversati: a creare, nell’azione furente, un altro uomo, guerriero, bambino, sfrontato, d’amore.
calibrando il dolore, perchè non prevalga.
sono nascite queste, di forze, reattive.

pesa, cupo, quel drappo di cielo, da sopra, alle teste.
ma il nero non mangia ogni cosa.
quella luce, ferma, silente, intensa, laggiù.
sottilissima e densa, una linea bianca che sale dall’orizzonte -mentre s’avverte, e cresce, e viene, un suono sordo, potente vibrato e sordo.
ecco il segreto: è lei, accesa, a poter divorare il nero.

quante esplosioni, possiamo immaginare, celate dentro a queste creature, di pietra e di seta, che dan battaglia all’assenza.
mentre fuori, sull’epidermide dei legni, le tensioni, ben stanti, mai ferme, torrenti, rii cunicolari, nutrono dall’interno, senza smangiare.

queste creature giovani, in apparenza, e vecchie, se ne ascultiamo il silenzio (tace chi ha visto: a monito), non sono in realtà, giovani né vecchie.
sono gli abitatori coscienti dello spazio.
dove lo spazio è il cielo, la foresta, il cosmo, le stelle, il seme, lo spirito.
sono le guardie, i custodi, dello spazio, nel tempo, reale, sospeso.
sono i guerrieri del senso, che rifiutano il belato.

gianluca d’incà levis, borca di cadore, ottobre 2016